Libri e musica: “Coal Black Mornings” di Brett Anderson

di Agnese Alstrian

Quando a 14 anni iniziai ad addentrarmi nella magica rete di musica e gossip del Britpop, i Suede erano uno dei gruppi che tendevo ad accantonare di più: nonostante facessero parte dei cosiddetti big four fondamentali assieme a Blur, Pulp e Oasis, per qualche motivo non mi attiravano granché. Non che li ignorassi del tutto – adoravo canzoni come Beautiful Ones e Animal Nitrate -, ma a distanza di anni credo che il mio scetticismo fosse dovuto principalmente al mio amore sconfinato per i Blur e all’influenza che su di me esercitavano tutti quei pettegolezzi che avevo assorbito sulla tensione romantica e le gelosie tra Brett Anderson, Justine Frischmann e Damon Albarn: nonostante la seconda avesse scaricato il primo per mettersi col terzo, per qualche meccanismo distorto del mio cervello adolescente, nella spettacolarmente infantile rivalità tra i due frontman, per me il cattivo era Brett. Poi sono cresciuta, ho imparato a indirizzare il mio astio verso il complesso di onnipotenza dei fratelli Gallagher, ho scoperto che Brett Anderson non era poi così antipatico come credevo e che i Suede erano davvero fighissimi. Che cosa mi ero persa…

I primi mesi di quest’anno li ho dedicati a recuperare parte della loro discografia, con un interesse alimentato dalla lettura di Lunch With The Wild Frontiers di Jane Savidge, l’addetta alle pubbliche relazioni che negli anni novanta – tra le tante cose – ha curato il modo in cui la stampa doveva parlare dei Suede, già definiti “migliore nuova band britannica” prima ancora di pubblicare qualsiasi singolo. I loro primi tre album in particolare sono diventati un’irrinunciabile colonna sonora, ho guardato il documentario The Insatiable Ones dividendolo in piccoli capitoli per evitare che finisse troppo presto, ho iniziato a commuovermi anch’io alla centesima visione del concerto alla Royal Albert Hall nel 2010 e ho creato una bacheca su pinterest esclusivamente dedicata a Brett Anderson che qualunque studente di moda potrebbe invidiarmi. (Una ricerca condotta con tale entusiasmo ha anche i suoi lati negativi, come il fatto che tutt’ora non c’è giorno che passi senza che il ritornello di The Drowners mi risuoni nel cervello totalmente senza preavviso, ma questi sono rischi inevitabili). Poi ho scoperto che Brett ha scritto non una, ma ben due autobiografie, e quella è stata la ciliegina sulla torta.

Il primo libro è Coal Black Mornings e ripercorre gli anni dall’infanzia agli esordi dei Suede – “prima che qualcuno sapesse o gliene importasse davvero” –, ma non si tratta della solita opera autocelebrativa: infatti, si tratta soprattutto di un regalo da parte di Anderson al figlio Lucian, un documento che un giorno lo aiuterà a capire meglio quali siano le sue radici e a conoscere davvero la giovinezza del padre; proprio per questo, Brett concentra le sue energie narrative sul ricordo di anni caratterizzati da fallimenti, ansie, lutti, ma anche dall’amore e dall’amicizia. La sua è stata un’infanzia segnata dalle continue difficoltà economiche e dalla rigida, a tratti disumana, educazione scolastica degli anni 70: descrive con dovizia di particolari la minuscola casa di Haywards Heath, gli arredi e i quadri alle pareti della madre artista, la tragicomica personalità del padre e i suoi mille lavori per mantenere la famiglia, il legame con la sorella maggiore, le cene a base di carne stopposa, gli spiccioli racimolati con i primi lavoretti deprimenti, l’umiliazione di sfilare davanti ai compagni di scuola in mensa in quanto fruitore di pasti gratuiti. In mezzo a questi ricordi di povertà emergono con particolare forza i racconti legati ai genitori, due personaggi imponenti e complessi con caratteri molto differenti: da un lato la madre Sandra, tenera, accogliente, apprensiva, amante della natura e con una creatività senza limiti; dall’altro il padre Peter, eccentrico, imprevedibile, paranoico, ossessionato dalla musica classica e che convinceva la famiglia a stiparsi nella traballante Morris Traveller in pellegrinaggio estivo in Austria nei luoghi di Franz Liszt. Brett ritrae questi quadretti di vita familiare con affetto e riconoscenza, ma anche con un certo distacco che gli permette – nei momenti di autoanalisi – di identificare le radici di alcuni suoi tratti caratteriali e abitudini. Tra i temi centrali vi sono il rapporto padre-figlio e i traumi generazionali: colpiscono la compassione e la maturità con cui Anderson racconta e accetta la figura paterna, riconoscendo a distanza di anni che molti suoi lati problematici erano fondamentalmente il risultato di un’infanzia anaffettiva e violenta con un genitore alcolizzato, e che Peter cercò con i pochi mezzi (e i pessimi esempi) a propria disposizione di fare in modo che i figli non dovessero crescere nella paura.

Foto di Kevin Cummins

Il look austero dei Suede mi ha sempre ingannata, facendomi pensare che fossero una band snob e sofisticata di agiata estrazione borghese; ma leggendo Coal Black Mornings ho dovuto decostruire questa impressione così radicata nella mia mente. Come spesso accade, la noia e l’alienazione della periferia costituiscono terreno fertile per gli spiriti creativi, e Brett Anderson non si è certamente tirato indietro quando si è trattato di uscire dalla sua condizione di isolamento: la scoperta del punk – in particolare i Sex Pistols – ha rappresentato il primo barlume di speranza, una forza dirompente che spingerà Brett verso l’ambizione di fare musica e soprattutto fuori dai confini asfissianti di Haywards Heath. Procedendo nella lettura, Anderson ci guida in un ipotetico percorso tra i testi che andranno a comporre l’album di debutto dei Suede, fortemente ispirati dai cambiamenti, dai traumi e dalle esperienze di questo periodo di transizione: sono brani che parlano di emarginazione, di disoccupazione, di sessualità, di trasgressione, di rabbia, di dolore e di perdita. Ogni traccia è legata ad un preciso aneddoto, dimostrando quanto sia innata in Brett la capacità di osservare e raccontare la vita in tutti i suoi aspetti più inusuali, introspettivi e marginali.

Nel trasferimento dalla periferia a Londra, la storia si arricchisce di nuovi personaggi: tra questi, oltre ai futuri compagni di band Mat Osman, Simon Gilbert e Bernard Butler, centrale è la figura di Justine Frischmann – elegante, intelligente, affascinante e il primo amore di Anderson. La loro sarà una relazione breve ma intensa, due persone socialmente agli opposti ma con un’intesa fortissima che sarà fonte di un’inarrestabile foga artistica; eppure la loro (triste) rottura, paradossalmente, darà ai Suede la spinta definitiva di cui avevano bisogno per definire la propria identità e sfondare.

La storia si chiude nel momento in cui la band firma il suo primo contratto. Brett delinea magistralmente questo senso di sospensione, di eccitazione e di speranza: riusciamo a immaginarceli benissimo questi quattro ragazzi, il loro pallore esaltato dal sole invernale fuori dall’ufficio discografico, euforici e anche un po’ confusi. Li attendono anni difficili ma loro ancora non lo sanno, perché ciò che conta è che quell’imbarazzante “spazio a forma di D” davanti al palco non sia più vuoto. Finalmente, è tempo di lasciarsi alle spalle le mattine nere come il carbone.

Shane MacGowan, un uomo che non incontri tutti i giorni

di Agnese Alstrian

Giovedì 30 Novembre, alle 3 del mattino, Shane MacGowan se n’è andato. Ho letto la notizia mentre preparavo il pranzo e per poco non ho dato fuoco alle melenzane. È normale piangere la morte di qualcuno che non hai mai incontrato – né che tantomeno sapeva della tua esistenza -, come se fosse un amico o uno di famiglia? Potrà sembrare stupido, ma io credo di sì. Crescendo, più musica ascoltavo e più allargavo la mia famiglia parallela, una schiera di padri e zii acquisiti che mi davano conforto e sostegno con la loro arte – e Shane era uno di questi.

Ho iniziato ad ascoltare i Pogues nel 2012, avevo 11 anni e probabilmente sono stati la prima band che ho scoperto “da sola”, ovvero tramite i Clash e leggendo Rolling Stone: il numero di Dicembre di quell’anno conteneva un editoriale su Joe Strummer in occasione del decennale della sua scomparsa, oltre a un lungo articolo sulla storia di Fairytale of New York, il successo anti-natalizio dei Pogues. Nei mesi successivi riuscii a mettere le mani sul loro album d’esordio, Red Roses for Me, e portai in giro quel CD così tanto da procurare alla custodia di plastica una brutta spaccatura. Continuavo ad ascoltare, cantare e ballare, affascinata da quella musica magica che fino a quel momento non era mai entrata a casa mia.

Foto di Youri Lenquette

I Pogues mi hanno aperto le porte di un mondo fino ad allora sconosciuto e mi hanno fatto capire che essere punk significa anche appassionarti alla tua cultura così tanto da riuscire a rendere nuove le cose antiche e viceversa (per parafrasare Jim Jarmusch): loro non indossavano vestiti strappati né sfoderavano chitarre distorte; al contrario, erano virtuosi della fisarmonica, del tin whistle e del banjo e si vestivano come venditori ambulanti (o impresari delle pompe funebri, in base all’occasione). Shane MacGowan – magrissimo, con i (pochi) denti pietosamente malridotti e le orecchie a sventola – era il loro bardo: più che cantare biascicava e urlava aggrappato al microfono (spesso con una bottiglia o una sigaretta nell’altra mano), ma scriveva da dio. Nessuno meglio di lui è mai riuscito a raccontare la miseria e la bellezza della condizione umana con così tanta autenticità. E non parlo solo dei pub, dei fiumi di whisky, della violenza e degli sconfitti della società, perché Shane non si limitava a descrivere la durezza di ciò che viveva, ma aveva soprattutto la delicata capacità, attraverso poche e semplici parole, di farti sentire il freddo e l’umidità di una giornata di pioggia, di parlare d’amore e di rivolgere l’attenzione alla straordinarietà delle cose mondane – come il canto del vento che soffia lungo il fiume o il sollievo che può dare lo sguardo gentile di un paio di occhi castani; in Lullaby of London, una delle sue canzoni più commoventi, offre una preghiera di protezione dai rumori della città, dagli affanni e dai brutti sogni, lodando l’armonia della natura e la benevolenza degli angeli.

Nato il giorno di Natale del 1957 in Inghilterra in una famiglia di cattolici irlandesi, sembrava che dovesse spettare proprio a lui il compito di scrivere la più grande canzone natalizia di tutti i tempi: Fairytale of New York è un calcio ai sentimentalismi melensi delle Feste; ci sono sogni infranti, litigi, solitudine, insulti, celle per ubriachi, dichiarazioni d’amore, grazia, squallore e speranza – l’essenza umana da un estremo a un altro perché, alla fine, cos’è il Natale se non quel periodo dell’anno in cui desideriamo che tutto cambi?

Foto di Andrew Catlin

Oggi il mio cuore fa male un po’ anche per quelli che non hanno conosciuto Shane oltre la superficie, perché sotto ai denti marci, gli occhi spiritati e l’etanolo spesso in circolo c’era uno degli animi più sensibili che la musica abbia mai avuto. Un vero narratore della vita in tutta la sua complessità, che scriveva come un poeta e cantava come un diavolo. Mi mancherà.

Possa il vento che soffia dalle tombe infestate

Non portarti mai miseria

Possano gli angeli luminosi

Vegliare su di te

E proteggerti mentre dormi

Libri e musica: “A Riot of Our Own” di Johnny Green (& Garry Barker)

di Agnese Alstrian

Ogni grande storia ha un personaggio che se ne sta sullo sfondo, indisturbato, ad osservare e registrare tutto quello che succede, e quando quel personaggio decide di raccontare ciò che ha vissuto ci fa sempre un gran favore. Nel mondo della musica, in particolare, spesso sono proprio quella schiera di collaboratori e tecnici, solitamente silenziosi e ligi al loro dovere, a tramandare gli aneddoti più preziosi.

Johnny Green trascorse tre anni della sua vita a lavorare come road manager per i Clash, e in quell’intenso periodo ne vide di tutti i tipi. D’altronde, definirlo un semplice roadie è a dir poco riduttivo, dal momento che presto il suo ruolo s’andò ad arricchire delle mansioni di: autista personale, contrattatore col mondo esterno, sveglia umana, preparatore di colazioni e di spinelli (spesso contemporaneamente), lavandaio, supervisore tecnico e, soprattutto, confidente. Entrato subito in sintonia col gruppo nel 1977, dapprima come semplice fan, Green si ritrovò poi a gestire in prima persona la crisi tra i Clash e il manager Bernie Rhodes (risultata nel licenziamento di quest’ultimo), diventando – assieme al fidatissimo collega The Baker – la loro ancora di salvezza, sia in termini organizzativi che di supporto morale. Anni dopo, Johnny deciderà di raccogliere i suoi ricordi in un libro, A Riot of Our Own, pubblicato per la prima volta nel 1997 e ormai diventato uno dei testi più amati sulla storia dei Clash.

Foto di Julian Yewdall

Tutto inizia col racconto di un concerto “di emergenza” al Russork Festival in Finlandia nel 1979, con Johnny che rischia di rimanerci secco per il cortocircuito di un amplificatore e i Clash – all’epoca pieni di debiti – che si rifiutano di salire sul palco finché non hanno la certezza di avere ricevuto il loro compenso: da qui parte un viaggio rocambolesco, dall’incontro con i Clash e i loro primi scalmanati concerti punk, al successo, le prove incessanti e i tour infiniti del periodo tra il 1978 e il 1979, fino agli ultimi giorni di Green con la band. L’edizione più recente comprende anche un lungo e intenso epilogo ambientato circa vent’anni dopo i fatti narrati, tra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000: i ragazzi sono cresciuti, sono diventati più saggi e hanno preso ognuno strade differenti; hanno scoperto il piacere delle rimpatriate, gioiscono dei traguardi altrui e ricevono meritatissimi riconoscimenti, ma purtroppo devono anche fare i conti con i fantasmi del passato e il dolore per la perdita prematura di Joe Strummer.

Foto di Haydn Wheeler

Sin dalle prime pagine è chiaro lo spirito della narrazione: sfrenato, comico e dissacrante, ma non per questo inaffidabile – anzi, Johnny ricorda molto bene i luoghi e le persone delle sue storie; spesso i toni appaiono cinici e distaccati – molto inglesi -, ma in realtà ciò che si percepisce è un profondo affetto e una sincerità che solo chi ha trascorso giorni e notti condividendo spazi angusti con i protagonisti può provare. Il libro di Green ha infatti il pregio, grazie alla sua posizione privilegiata, di grattare la superficie mitizzante del tipico racconto rock ‘n’ roll per far emergere le nature interiori e le abitudini private dei quattro Clash, molto diverse tra loro eppure complementari: i sacchetti di plastica al posto delle valigie, la generosità e l’insicurezza di Joe Strummer, che i lunghi viaggi sul tour bus li trascorreva col naso nei libri e a chiacchierare (sussurrando, per non sforzare la voce) di qualsiasi cosa con chiunque; la sindrome da ritardatario cronico, l’avversione per il formaggio e la risolutezza di Mick Jones, che nonostante le aspirazioni da celebrità dissoluta non negava a sua nonna di assistere ai concerti da dietro le quinte; la perseveranza, la predilezione estetica e l’infaticabile monelleria di Paul Simonon, il cui sconfinato repertorio di battute e scherzi più o meno pericolosi spesso salvava dalla noia e dalla tensione; la semplicità d’animo, la disciplina musicale e il talento calcistico di Topper Headon, che amava bere in compagnia tanto quanto odiava salire su un aereo.

Foto di Pennie Smith

Da questo ritratto dall’interno, senza filtri e abbellimenti, i Clash ne escono dignitosamente. Green non è interessato alla costruzione di una storia glamour in stile “sesso, droga e rock ‘n’ roll”, ma piuttosto vuole evidenziare ciò che rendeva davvero grandiosa quella band: la profonda stima e il senso di protezione che legava i membri del gruppo come fossero fratelli, e la loro innata capacità di attirare e accogliere gli outsider. Johnny non fa sconti a nessuno: racconta tanto i momenti belli quanto quelli difficili, i lati meno sopportabili dei suoi compagni di avventura e i barlumi di indimenticabile eroismo, lasciando trasparire l’umanità, la fragilità e l’ingenua bontà di quattro ventenni maledettamente bravi nel loro lavoro, ma che a volte in fondo volevano solo sbronzarsi e dormire qualche ora in più – com’era giusto che fosse. In particolare, spiccano gli aneddoti sulla famosa devozione dei Clash per i loro fan: la condivisione di cibo e camere d’albergo, le chiacchiere in backstage post-show, le partite di calcio nel campetto davanti allo studio, e la possibilità di assistere ai concerti gratuitamente per chi non se lo poteva permettere; una profonda gratitudine nei confronti dei loro seguaci che spesso si traduceva in deliberati atti di disobbedienza – come la strampalata protesta di Paul e Joe, che si spogliarono fuori al freddo per costringere il loro riluttante autista a dare passaggio a dei ragazzi. La band traeva energia creativa dal contatto con la gente comune, e quando questa esigenza si scontrava con le imposizioni e le logiche della casa discografica, la frustrazione e i litigi erano inevitabili: ma, come sottolinea Green, i Clash hanno sempre fatto del loro meglio per mettere la musica e i rapporti umani al primo posto, a costo di risultare prepotenti e sovversivi.

Foto di Pennie Smith

La vita on the road e le giornate in studio erano ciò che tirava fuori la vera essenza del gruppo il quale, allo scalpore del punk da tabloid e alla furia autodistruttiva dei loro colleghi – primi fra tutti, i Sex Pistols –, preferiva di gran lunga mettersi alla prova artisticamente e circondarsi di gente simpatica: ad ogni tour il pullman si riempiva di roadies, musicisti spalla, fotografi, fidanzate e amici con familiari al seguito, il che era sempre un incubo per i ragionieri della CBS che dovevano far quadrare i conti. Sono proprio le esperienze di viaggio a divertire e affascinare di più: col loro carico di paesaggi alieni, euforia, sudore, imprevisti ed esaurimenti trasmettono – assieme ai disegni surreali di Ray Lowry (illustratore di NME arruolato dai Clash nel tour americano del 1979, nonché responsabile della grafica di London Calling) che arricchiscono le pagine – un’atmosfera esuberante e squallida alla Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter S. Thompson. Tutto merito della scrittura di Green, che con la sua schiettezza e semplicità ci coinvolge nella storia facendocela vivere da dietro le quinte, come se fossimo stati lì anche noi.

Mick Jones e Johnny Green in una scena di “Rude Boy”

A questo punto non posso non parlare dell’autore che, come avrete capito, è un uomo molto fortunato: non capita tutti i giorni di diventare uno dei più stretti collaboratori di una band che ammiri, e di vederla crescere e lavorare giorno dopo giorno fino ad arrivare al successo. Uno dei temi di fondo di A Riot of Our Own è che quando le cose le vivi appieno non ti rendi mai davvero conto della loro portata. Mentre i Clash stavano registrando London Calling con Guy Stevens, Johnny trascorreva la maggior parte del suo tempo incollato al telefono a muro nel corridoio dei Wessex Studios: la band si divertiva da matti a registrare, invece Green cercava disperatamente di fissare concerti per racimolare i soldi necessari alla loro sopravvivenza. In quelle sale di registrazione si stava facendo la storia della musica, e i personaggi coinvolti erano: un gruppo al verde particolarmente ispirato, un produttore perennemente ubriaco e un road manager orgoglioso ma sull’orlo di una crisi di nervi. L’impegno di Johnny Green per mantenere i Clash a galla era puramente motivato dalla passione (“Non l’ho mai fatto per i soldi – quali soldi?”), e nonostante le difficoltà del periodo, dimostrò sempre di sapersela cavare in ogni situazione, soprattutto in quelle più confusionarie: per sua stessa ammissione, Green è un tipo che eccelle in mezzo al caos. Ogni occasione di baldoria che gli si presentava davanti, lui l’afferrava al volo: amava l’alcol e raramente lo rifiutava, rischiò la vita diverse volte (e spesso, manco a dirlo, c’era di mezzo Simonon), se la spassò con le donne, percorse in lungo e in largo le autostrade del Regno Unito, volò da un continente all’altro e si presentò alla première berlinese del docufilm Rude Boy per godersi gli applausi e la sua faccia sul grande schermo (quando la band, al contrario, aveva deciso di disertare). Naturalmente c’erano anche le incombenze di tutti i giorni, come andare a svegliare Jones alle due del pomeriggio e assicurarsi che il gruppo avesse sempre vestiti e asciugamani puliti. Ma quando Green capì che quella dei Clash stava diventando una macchina ben oliata, con sempre meno sfide e intoppi, accettò che la sua missione era compiuta e che bisognava dare una nuova svolta alla sua vita: decise di trasferirsi negli Stati Uniti per lavorare col cantante country Joe Ely, e quando lo comunicò alla band la risposta che ricevette fu un semplice: “Se le cose non dovessero funzionare, torna da noi – sempre.”

Johnny Green e The Baker (photo courtesy The Baker)

A Riot of Our Own è, essenzialmente, una storia di famiglia: di legami profondi che non si interromperanno mai, di esperienze che è impossibile dimenticare e di luoghi sicuri in cui si sa di poter tornare. Soprattutto quando quella famiglia è i Clash – una band appassionata, genuina, testarda e sempre a corto di calzini.

Johnny Green con Mick Jones, Paul Simonon e Joe Strummer mentre leggono la prima edizione di “A Riot of Our Own”

Joe Strummer, un eroe assurdo

di Agnese Alstrian

Lo scrittore e filosofo francese Albert Camus diede una definizione alla contraddizione tra l’uomo – che cerca un senso alla propria vita e al mondo – e il mondo stesso – che è caotico, distruttivo e in fondo un senso non ce l’ha – attraverso il concetto di Assurdo: un divario profondo, che genera paura e confusione e in alcuni casi può anche condurre alla morte. Nel libro Il mito di Sisifo, Camus delineò due possibili “vie di fuga” da questo spaesamento: la prima, il suicidio, è sconsigliata e criticata dall’autore in quanto è la netta vittoria del nichilismo dell’universo sull’uomo, mentre la seconda invece – quella da preferire – è la pura accettazione dell’Assurdo e del suo infinito mare di possibilità. In questo contesto, chi riesce a creare bellezza in un mondo così ostile e brutale mette in atto una ribellione, perché dimostra di non aver permesso che esso costituisca un ostacolo alla propria esistenza: anche solo chi si accontenta semplicemente di vivere, senza sfoggiare grandi gesti artistici, può considerarsi un piccolo eroe. Più di quarant’anni dopo la pubblicazione di quel libro, un musicista inglese di fama mondiale si trovava a fare i conti con la ricerca di un nuovo significato da dare alla propria vita dopo che la band che l’aveva consacrato al successo e a cui aveva dedicato ogni sforzo creativo si era sciolta dopo sei intensissimi anni: Joe Strummer si stava scontrando con l’Assurdo.

Foto di Julian Yewdall

L’ingresso nei Clash nel 1976 rappresentò per lui l’anno zero: cominciare una nuova vita da punk richiedeva una serie di cambiamenti radicali, in primis rinnegare il suo pseudonimo, gli amici e la sua vita fino a quel momento, e lasciare tutto nel passato. Il romantico e spensierato hippy Woody Mellor cessò improvvisamente di esistere e al suo posto nacque un nuovo personaggio – serio, intimidatorio e così fiero di strimpellare tutte e sei le corde contemporaneamente da trasformare questa limitazione tecnica nel suo nuovo nome. Anche il suo modo di scrivere mutò: accantonate definitivamente le canzoni sulle fidanzate e la pazza vita bohemien negli squat, Joe volse lo sguardo alla vita di Londra, alla politica inglese e al mondo. “Scrivi di cose che ti riguardano”, fu il consiglio che gli fece cambiare prospettiva.

Joe dimostrò sempre una personalità vivace ed espansiva, nonché di avere una particolare predilezione per i rapporti umani; il nuovo modo di scrivere non solo diede una direzione definita alla sua urgenza creativa, ma gli permise soprattutto di entrare in contatto con la gente, cambiare le loro vite e dare un senso alla sua. I testi dei Clash parlavano di razzismo, violenza, disoccupazione, disuguaglianze sociali e attualità e arrivavano dritti alle orecchie e al cuore degli ascoltatori come nessun altro gruppo punk era riuscito a fare. Joe Strummer diventò presto un’icona per milioni di ragazzi che grazie alle sue canzoni plasmavano la propria coscienza morale e politica: il movimento hippy aveva fallito e nessuno voleva più sentire brani utopistici ispirati da fiumi di droghe; nel 1977 i giovani volevano avere riconosciuto lo squallore, la rabbia e la diversità delle proprie vite ed essere incoraggiati alla solidarietà in maniera lucida e integra. Proprio grazie a questa forte capacità comunicativa, tra tutti i gruppi della scena punk, i Clash saranno quelli col lascito più nobile e duraturo.

Foto di Julian Yewdall

Gli anni tra il 1976 e il 1982 furono sfrenati e musicalmente rivoluzionari: la band si evolse in forme sempre migliori e più complesse – sfidando i limiti del punk per mischiarlo con generi diversi, creando nuovi sound -, senza mai allontanarsi dall’etica e dalle intenzioni originarie. Ma, come tutte le fiamme che bruciano intensamente, anche i Clash furono destinati ad estinguersi in fretta: il loro scioglimento lasciò un vuoto incolmabile, non solo nel panorama musicale ma anche nelle vite dei suoi membri. Rispetto ai suoi compagni, probabilmente Strummer fu quello che patì maggiormente la fine di quell’avventura: non solo era in parte colpa sua, ma la sua identità era indissolubilmente legata ad un gruppo che – lo sapeva benissimo – non sarebbe mai ritornato.

Al contrario di certi musicisti che alla prima occasione di reunion non ci pensano due volte a sotterrare l’ascia e ad intascare l’assegno, per tutto il resto degli anni 80 Joe Strummer cercò disperatamente di liberarsi dal peso del suo passato nei Clash per affermarsi come musicista indipendente. La band che l’aveva reso una leggenda vivente improvvisamente non c’era più, ma Joe si rifiutò di guardare indietro, nonostante l’incomprensione di alcuni fan e colleghi che invece invocavano a gran voce il ritorno dei Clash. Quegli anni non furono per niente facili: da un lato, si dedicò alla realizzazione di qualche colonna sonora, fece un album solista che passò abbastanza inosservato, mise su qualche gruppo destinato a sciogliersi dopo pochi giorni e si dilettò perfino come attore in un paio di film; dall’altro, la morte dei suoi genitori e la nascita delle sue figlie avevano scosso gli equilibri (già delicati) della sua vita privata. Senza band, orfano e con una nuova famiglia a cui dedicarsi, Joe cercò con tutte le sue energie di non demordere, nonostante i numerosi fallimenti e gli spettri della depressione e dell’alcolismo a rendergli le cose ancora più complicate.

Qualcosa in Strummer era indubbiamente cambiato: faticava ad essere la persona aperta e istintiva che era sempre stato, e c’era qualcosa che non gli permetteva di entrare in sintonia col mondo che lo circondava. Il talento di Joe stava nel riuscire a fiutare le novità e le potenzialità di qualcosa prima ancora che venissero riconosciute: quando capì che il punk era il futuro ad un concerto degli allora sconosciuti Sex Pistols nel 1976, l’abbattimento delle barriere tra generi musicali e l’importazione del rap dagli USA all’Europa che consacrarono i Clash al successo – tutte intuizioni che furono la sua fortuna. Inoltre, la sua creatività era alimentata da ciò che accadeva all’esterno e gli incontri con persone e artisti, i viaggi in giro per il mondo e il rapporto ravvicinato con i fan erano per lui una risorsa inesauribile. Ora invece insisteva – forse involontariamente – su un pragmatismo e un’introspezione che non gli appartenevano, e che per ciò erano fonte di insoddisfazione e delusione.

Guardando la complessa situazione di Strummer in quegli anni, non possiamo fare a meno di ammirare un certo stoicismo che Camus avrebbe sicuramente apprezzato. Joe era conscio della tristezza delle circostanze ma nonostante ciò andò avanti, dritto per la sua strada: la fine dei Clash lo aveva abbandonato in un totale spaesamento, privandolo di un senso alla propria vita, ma subito si adoperò per costruirsene un altro; non importava quanto passassero inosservati i suoi progetti, non importava quanti gruppi formava e disfaceva nel giro di poco, ciò che contava era creare, fare quante più esperienze possibili e vivere la vita fino in fondo, compresi i suoi momenti più bui. La chiamata alle arti era troppo forte per essere ignorata, e la sua celebre testardaggine verrà finalmente ricompensata: gli anni 90 furono una rinascita per Joe, che ritrovò un equilibrio nella sua vita e fece di nuovo pace col mondo. La sua magica intuizione tornò più forte che mai, e le sue orecchie si aprirono a tantissime novità che restituirono linfa al suo lavoro: la techno, il nuovo rock alternativo, la world music, i rave, i festival, i falò; riallacciò i legami con i vecchi amici, ne conobbe di nuovi e si circondò di musicisti che gli istillarono la fiducia necessaria per iniziare un’entusiasmante e promettente avventura con un nuovo gruppo – i Mescaleros. Tutto stava scorrendo per il meglio e il lieto fine tanto meritato si stava finalmente avverando, se non fosse che – come ci ricorda Camus – l’universo è un posto brutale e insensibile, dove le disgrazie si abbattono con una casualità spaventosa.

Quest’anno ricorrono 20 anni dalla scomparsa di Joe Strummer, e in questo giorno parenti, amici e fans onoreranno la sua vita ciascuno a modo proprio. Ovviamente non mancheranno quelle narrazioni, sempre presenti, che tendono a santificare gli artisti, mettendoli su un piedistallo e trasformandoli in icone immacolate – ma ognuno è libero di raccontarsi le storie che vuole. Io invece, nel mio piccolo, stavolta voglio ricordare il periodo oscuro della carriera di Strummer (e la gioia incontenibile dei suoi ultimi anni), perché è vero che Joe ci ha dato tanto con la sua musica e le sue parole, ma forse gli insegnamenti più grandi si trovano proprio in quei momenti della sua vita incredibile in cui niente sembrava avere valore.

“Non ho nessun messaggio tranne: non dimenticate che siete vivi. Perché a volte quando cammini in giro per la città o quando senti che sei di cattivo umore puoi pensare: ‘Ehi, aspetta un minuto! Siamo vivi!’, sai, non sappiamo cosa accadrà tra un secondo. Questa è la cosa più grande.” – Joe Strummer

Foto di Josh Cheuse

Parliamo dei… Post Nebbia

di Agnese Alstrian

Estate 2021. Caldo, tanto caldo, vacanze in giro per l’Italia, prime avventure motorizzate post-patente, concerti all’aperto, gelati, chiacchiere in balcone, amici vecchi e nuovi, balli improvvisati, mare, uncinetto e litigi con una mente bisognosa di manutenzione; tutti questi eventi hanno avuto qualcosa in comune: i Post Nebbia come colonna sonora. A dirla tutta, non credo di essermi mai appassionata così tanto ad una band italiana, sorprendendomi a riascoltare infinite volte i loro album e ad avere alcuni brani in loop in testa per giorni – o addirittura settimane, o mesi. Va bene, ammetto di non essere ancora uscita dal tunnel di Televendite di quadri, ma a volte bisogna semplicemente accettare che esistono canzoni letteralmente ipnotiche, e che arrendersi al loro fascino magnetico non è poi così male. Tutto merito (e colpa) della stessa amica che mi convertì agli Idles.

I Post Nebbia nascono a Padova dalla fervida mente del giovane Carlo Corbellini, un progetto in cui lui ricopre un ruolo primario praticamente in tutte le fasi creative, dalla scrittura all’esecuzione e alla produzione. Nel 2018 esordirono con l’album Prima Stagione, aggiudicandosi un posto nei meandri più celati della scena indie italiana, scaturendo molta curiosità. In questa prima prova discografica – che, come a volte accade negli ambienti underground, ha un po’ il gusto di un esperimento di cui non si può prevedere l’esito – si avverte già una certa maturità stilistica, nonché si intravedono quelli che si affermeranno come i temi ricorrenti dell’immaginario dei Post Nebbia: introspezione, flussi di coscienza, osservazione sociale e mediatica, interesse per le iconografie e la cultura pop, estetica e atmosfere legate al loro territorio.

Foto di Riccardo Michelazzo

Poi arrivò il 2020 e tutto ciò che ne conseguì. Verso la fine di quello sventurato anno, la band padovana pubblicò il suo secondo disco, l’acclamatissimo Canale Paesaggi. I Post Nebbia sono ancora relativamente all’inizio, ma hanno già realizzato quello che molti fan concordano nel considerare il loro capolavoro: nel giro di due anni, i suoni e i gusti del primo album sono stati abbondantemente approfonditi e affinati e i testi riescono a veicolare i pensieri e i messaggi di Carlo con assoluta chiarezza e coerenza. In questo album, Corbellini affronta i temi dell’alienazione, della fagocitazione mediatica, del voyeurismo e del controllo, giusto per citarne alcuni; esprime confusione, scetticismo, fascinazione, disgusto e arrendevolezza di fronte al caleidoscopio di immagini e voci ai quali siamo esposti costantemente, spesso senza neanche accorgercene. Musicalmente, Canale Paesaggi è un’esperienza uditiva fuori dal comune: i Post Nebbia si aprono al pazzo gioco postmoderno di citazioni e apparizioni impreviste, mischiando magnetici riff di tastiere e chitarre, suoni elettronici e un cantato svagato e rilassato con bizzarri estratti di infimi programmi di tv private e registrazioni distorte di preghiere, mischiandosi in un vortice ipnotico e conturbante.

Foto di Agnese Alstrian

Due anni dopo e con una nuova line-up, i Post Nebbia sono tornati con Entropia Padrepio, uscito a Maggio di quest’anno. Con questo disco, che mantiene le sonorità sperimentali dei lavori precedenti, Corbellini esplora nuove tematiche, stavolta lontano da schermi luminosi e tv a tubo catodico: spiritualità, cattolicesimo, riti di passaggio e caos universale sono tra i temi affrontati nel nuovo album; si interroga sui bisogni immateriali delle persone, su cosa le spinge a cercare determinate risposte e a volte ad accontentarsi che tali risposte non esistono. È certamente un disco pervaso da una saggezza e da una introspezione mai provate prima, ha un’aura di sacralità ma non è incentrato sulla religione: piuttosto, sfrutta questo tema per esprimere un desiderio di comunità in un’epoca instancabilmente individualista.

I Post Nebbia ormai sono considerati a pieno titolo tra i gruppi più importanti del panorama indie italiano: nei loro lavori hanno dimostrato grandi capacità di sperimentazione, nonché autenticità e intelligenza, sempre rimanendo fedeli a sé stessi e a ciò che li appassiona davvero. Se ancora non l’avete fatto, dategli un ascolto – non ve ne pentirete.

Foto di Ilaria Ieie

Parliamo dei… Walt Disco

di Agnese Alstrian

Non mi stancherò mai di ripeterlo: band come i Walt Disco sono una vera e propria opera d’arte. Dopo l’EP d’esordio Young, Hard and Handsome, uscito a Settembre dell’anno scorso, la band di Glasgow continua a sorprenderci con pubblicazioni che sono una gioia sia per le orecchie che per gli occhi.

Selfish Lover segna l’inizio di un nuovo capitolo: la collaborazione con l’etichetta londinese Lucky Number e la voglia di esplorare e consolidare meglio la propria identità di band. I Walt Disco sono più vivaci ed eccentrici che mai, e lo fanno con un brano che è un omaggio ai loro “tempi divertenti e caotici del passato” e ai gruppi che li ispirano di più. Il videoclip che accompagna il singolo rappresenta perfettamente il loro universo queer, in cui non ci sono limiti all’immaginazione e alla sperimentazione: è un’esplosione di colori ed esuberanza, che non può non trasmettere gioia e un grande senso di libertà. Il trucco, i tacchi, l’abbigliamento d’ispirazione anni 80 sono solo alcuni dei mezzi estetici usati dalla band per rafforzare quello che comunicano con la musica: incitare gli altri a non aver paura di essere sé stessi e a sperimentare con le infinite possibilità di espressione a nostra disposizione.

L’atmosfera disinibita di Selfish Lover trova una controparte più introspettiva nel suo successore, Weightless. È una riflessione a cuore aperto del cantante James Potter, che si identifica come persona non-binary: in questo brano si interroga sulla propria identità di genere e sulla percezione di sé; esprime la preoccupazione di non aver fatto abbastanza per esprimere all’esterno la propria interiorità, di aver mentito a sé stess* per troppo tempo. Ma, com’è nello stile dei Walt Disco, c’è sempre una luce in fondo al tunnel. Nel ritornello James lancia un messaggio di speranza, rivolto sia a sé che a tutti quelli che possono identificarsi con la sua storia: non importa quanto a lungo ci siamo nascosti o non abbiamo dato ascolto al nostro vero “io”, siamo sempre in tempo per rimediare. Anche stavolta, il videoclip è un piccolo capolavoro: i costumi e le incredibili scenografie ci trasportano in un mondo lontano, la cui atmosfera fumosa e misteriosa accresce la drammaticità del brano, per una singolare esperienza di intenso coinvolgimento emotivo.

Il futuro sembra riservare tante sorprese e soddisfacenti traguardi per i Walt Disco: nell’attesa di scoprire cosa verrà dopo, cercheremo di seguire i loro insegnamenti di autenticità ed emancipazione.

Foto di Weronika Sikora

Parliamo dei… Muffintops

di Agnese Alstrian

Dopo la nostra intervista, realizzata a Novembre dell’anno scorso, i Muffintops hanno continuato a lavorare instancabilmente. Allora, la loro discografia si era appena arricchita di un terzo singolo – Edelweiss -, ed era in corso la produzione di un nuovo brano, il primo registrato in uno studio professionale (come mi scrissero pien* di emozione all’inizio di quest’anno): quella canzone si chiamerà Not A Girl e verrà descritta dalla band come “il nostro coming-out ufficiale come persone non-binary”. Ciò che rende questo singolo così speciale non è soltanto il messaggio personale e liberatorio che ne sta alla base, ma è soprattutto la sua apparizione nell’album Poland Has A Task (iniziativa benefica a favore delle donne e della comunità LGBT+ in Polonia di cui abbiamo parlato a Marzo in un’intervista con la sua ideatrice Ola Poroslo). Con questo piccolo ma significativo contributo i Muffintops fanno sentire la propria presenza all’interno della piccola scena indipendente di Bristol, fatta di artisti che vogliono fare musica e arte per il semplice gusto di diffondere bellezza e divertimento, in un ambiente che incoraggia la collaborazione e la libera creatività.

L’ultimo singolo dei Muffintops, uscito il 25 Giugno, è l’incarnazione di tutto questo. Runaway è un inno all’indipendenza, che può essere un’arma a doppio taglio: la voce dolce e avvolgente di Ella ci racconta dell’incessante ricerca del proprio posto nel mondo (“un posto che possa chiamare mio”), qualcosa che da un lato può essere avventuroso e liberatorio, ma dall’altro può portarci oppressione e angoscia. Elie scandisce il ritmo con una batteria secca e marcata, la solida ossatura su cui si basa tutta la canzone, ma la band stavolta fa qualcosa di più: gli strumenti di Ella ed Elie non sono gli unici ad apparire, c’è anche il contributo speciale di violini e trombe che enfatizzano in maniera eccellente le emozioni durante l’ascolto. Inoltre, il duo si è avvalso dell’aiuto di amici videomaker e fotografi per realizzare un bellissimo videoclip di accompagnamento al singolo, in cui i due membri del gruppo eseguono il brano in tante location diverse, dietro la cornice di una finestra che simboleggia la casa di cui si è alla ricerca.

L’unione fa la forza, e non esiste cosa migliore della musica per dimostrarlo.

Foto di AJ Stark

Parliamo dei… Try Me

di Agnese Alstrian

All’interno della piccola scena indipendente di Bristol, un duo chiamato Try Me sforna una hit dopo l’altra. Il progetto, composto da Bendy Wendy e Hector Boogieman, con la propria musica ha creato un universo DIY, vivace e colorato, aperto a chiunque voglia “soltanto divertirsi” (come cantano in una delle loro canzoni più amate, Good Time Goggles).

Musicalmente, i Try Me si definiscono disco-punk: basi di dance ed elettronica e semplici melodie che restano scolpite in testa, impossibili da non ballare. L’attitudine punk li indirizza verso precise scelte estetiche e liriche: i Try Me sono multicromatici, ambigui e irrequieti; giocano con i generi e le apparenze, cantano con leggerezza e spirito alternando le voci con perfetta sincronia, concentrandosi spesso su storie bizzarre e fuori dall’ordinario. È il caso del loro nuovo singolo, Heavy Lunch (uscito il 24 Aprile): il brano (accompagnato da un divertente videoclip autoprodotto dal gruppo) racconta di un ragazzo-maiale che mangia così tanto da dare vita ad un bambino fatto di cibo; il ritornello è un flusso di coscienza alimentare, in cui il ragazzo-maiale, lasciato da solo con le proprie fantasie culinarie, elenca tutte le prelibatezze che vorrebbe avere nel suo stomaco.

Insomma, provare per credere: nel mondo dei Try Me qualsiasi cosa può prendere vita e trasformarsi in qualcosa di stravagante, spassoso e mai banale. Non ne resterete delusi.

Parliamo di… Lynks

di Agnese Alstrian

Nell’universo letterario di Pirandello, le maschere sono le molteplici identità che possiamo (e, in un certo senso, dobbiamo) assumere a seconda dei contesti in cui ci troviamo, sono le apparenze dietro le quali nascondiamo il nostro “vero essere”. Se da un lato queste maschere sono false, disoneste, occultatrici, dall’altra parte danno una libertà infinita: dietro di esse, possiamo essere chiunque vogliamo.

Lynks è certamente un personaggio che non passa inosservato: completini coloratissimi cuciti a mano, passamontagna abbinati con corna o codine, sandali con le calze, rossetto rosso e nero, ombretto pesantissimo, brillantini e frange come se piovesse; definito dal suo stesso creatore Elliot Brett “una maschera” creata innanzitutto per divertirsi, è un concentrato di tutto ciò che è appariscente e bizzarro, pronto ad esplodere in qualunque momento.

Originario di Bristol e diventato popolarissimo a Londra, Lynks ha lasciato il segno con esibizioni che sono puro intrattenimento, un perfetto mix di musica elettronica, coreografie e comicità: ironia e concisione sono elementi fondanti delle sue canzoni, in cui elementari ma accattivanti beat elettronici fanno da sfondo a taglienti osservazioni sociali e racconti del mondo queer. Il suo debutto è dell’estate scorsa (Luglio 2020 per la precisione) con l’EP Smash Hits, Vol. 1, mentre è di Gennaio 2021 il suo seguito Smash Hits, Vol. 2. In entrambi Lynks scatena tutta la sua satira e – come esplicato nei titoli – ci offre una serie di hit già intramontabili su cui ballare freneticamente. Si raccontano la vita notturna nei club etero dal punto di vista di un omosessuale, amori miserabili e disperati, la perenne indecisione e insoddisfazione e perfino la pandemia vista dalla Gran Bretagna; si esprime frustrazione per le regole della società per raggiungere un fantomatico successo, nonché una pungente critica agli standard di bellezza e all’ossessione per l’apparenza nutrita da internet, insieme ad una buona dose di ironica autocommiserazione.

Lynks è solo all’inizio ma ha già le idee ben chiare: dando vita a questa identità parallela (un “mostro drag mascherato”, come definito da Elliot stesso) si è liberato dal peso del proprio essere ordinario, facile bersaglio di giudizi, lasciando a qualcun altro – un essere implacabilmente esuberante ed eccentrico – il compito di offrire le migliori hit dance a tutti i reietti che vorranno ascoltarlo, protetto dalla libertà e dalle infinite opportunità della maschera.

Foto di Percy Walker-Smith

Parliamo dei… Black Country, New Road

di Agnese Alstrian

Descrivere i Black Country, New Road in modo semplice e lineare? Impossibile. O almeno, lì per lì non mi viene in mente niente di chiaro e immediato. D’altronde, non sono una band come tutte le altre e ascoltare la loro musica non è un esercizio così semplice e scontato: ogni tentativo di trovare un senso logico, un’unità che non sia frammentata e in generale di ascoltare con lo stesso spirito che abbiamo quando ci rapportiamo con qualsiasi altro tipo di musica a cui siamo abituati è assolutamente inutile. Dopo mesi di prove, ho scoperto che il segreto per apprezzare le loro canzoni è non opporre la minima resistenza: bisogna lasciarsi andare al flusso e godersi il viaggio.

I Black Country, New Road (sì, con la virgola) si sono formati a Cambridge nel 2018, tutti appena ventenni e reduci da un’esperienza musicale finita relativamente presto. La svolta arriva quando, a Londra, la band entra nelle grazie dell’etichetta Speedy Wunderground, che pubblica i loro primi due singoli Athens, France e Sunglasses: sulla loro scia, il gruppo piano piano si afferma come una delle migliori live band della scena (diventando assidui frequentatori, manco a dirlo, anche del Windmill di Brixton), facendosi conoscere con concerti che suonano come delle lunghe jam session in cui tutto è permesso (anche una fusione con i Black Midi in quella creatura leggendaria nota come Black Midi, New Road).

La band ha pubblicato il proprio album di debutto il 5 Febbraio di quest’anno: For the first time è un itinerario che attraversa tutte le unicità e stranezze del mondo sonico dei Black Country, New Road. In sole sei tracce viene condensato tutto l’incredibile talento compositivo di questi sette ragazzi, ognuno dei quali riesce perfettamente a far sentire il proprio personale contributo, risultando in un’omogenea mescolanza di suoni e generi. Ci sono la musica klezmer, il free jazz, il post-rock; passaggi in cui gli strumenti si aggregano in modo equo e fluido e altri in cui sembrano collidere tra di loro, il tutto accompagnato dai febbricitanti flussi di coscienza decantati con voce profonda da Isaac Wood, testi bizzarri e apparentemente sconclusionati che a volte sfiorano il delirio e la paranoia, non privi comunque di una vena ironica marcatamente britannica.

I Black Country, New Road sono senza dubbio uno dei gruppi più sorprendenti del momento: sono giovani, eclettici e dinamici, una vera e propria orchestra del futuro che non ha paura di sperimentare e mettere in musica tutto ciò che vuole, fregandosene dell’eventualità di essere incompresi e a volte anche detestati; una band che sia dal vivo che su disco emana tutta la gioia e l’eccitazione di suonare insieme a compagni che sono innanzitutto amici, e se è vero che l’unione fa la forza, loro oramai sono davvero invincibili – con o senza occhiali da sole.

Foto di Benedicte Dacquin