A quanto pare, trovare un taxi a Lucca è difficilissimo; se mezza città è bloccata per il concerto dei Blur, è ancora peggio. Dopo quattro anni dall’ultima volta, sono tornata in questa città per concludere la trilogia di Damon Albarn: già visto con i Gorillaz e i The Good, The Bad & The Queen, stavolta tocca all’ultima band che pensavo di vedere dal vivo quest’estate – per non dire in tutta la mia vita. Non ci avrei mai sperato.
Sono a Lucca da qualche ora, tutte le fermate degli autobus sono sospese e la speranza che un taxi si fermi comincia a vacillare: è Luglio e ho leggermente bisogno di una doccia e una maglietta pulita. Dopo un’attesa quasi biblica, alla piazzola si ferma finalmente un veicolo dal quale esce un vecchietto tutto curvo e dall’aria di uno che ne ha decisamente abbastanza di vivere. Senza troppi convenevoli, afferra la nostra valigia e fa accomodare me e mio padre sui sedili posteriori (per prima cosa noto l’assenza di un GPS, al suo posto c’è solo un vecchissimo Nokia agganciato al bocchettone dell’aria condizionata, ovviamente spenta); poco dopo ci chiede – o meglio, ordina – di stringerci per dar passaggio anche ad una coppia che aspettava insieme a noi. Solitamente non parlo con gli sconosciuti, ma con gli inglesi faccio sempre un’eccezione: i nostri compagni di taxi si chiamano Dan e Holly, sono di Londra, e anche loro si trovano a Lucca per il concerto (“com’è che non siete andati a vederli al Wembley?!”, mi viene spontaneo chiedergli). Viene fuori che sono fan dei Blur praticamente da secoli, li hanno addirittura visti suonare a Colchester quando ancora non se li filava nessuno: Dan mi dice anche che lo si può vedere fare crowd surfing in Starshaped, il documentario del 1993 che ormai ho visto non so più quante volte. “Avevo molti più capelli”, ci tiene a precisare.
Ad essere sincera, non vedevo Starshaped da anni, ed è una delle cose che mi riprometto di fare una volta tornata a casa – “per smaltire la malinconia post-concerto”, penso. Dura appena un’ora e la qualità delle immagini è infima, ma riguardandolo mi ricordo perché tra tutti i documentari girati sui Blur (compreso B-Roads, famoso per essere misteriosamente sparito per anni e magicamente riapparso da qualche mese) questo sia quello che amo di più: sarà che mostra uno dei miei periodi preferiti dei Blur, o che lo stile strampalato e lo-fi delle riprese – da “mosca sul muro” – può solo definirsi come una serie di appunti visivi del caos che era la band agli albori, o forse ciò che mi rimane davvero è il senso di nostalgia per un’epoca che non ho vissuto.
Starshaped inizia con l’iconica inquadratura di Damon, Graham e Alex che corrono scalmanati verso la telecamera – mentre Dave Rowntree invece si prende il suo tempo – con in sottofondo Intermission e in piena tenuta da Modern Life Is Rubbish: giacca, jeans e Dr Martens. Dopo una serie di immagini in bianco e nero di attese in aeroporto, paesaggi sfocati dal finestrino, e noia ed eccitazione sul tour bus con destinazione Reading Festival, la band ci accoglie con modi molto inglesi nel 1993: “Salve. Siamo in una stazione di servizio, su un’autostrada, in un paese”. Giusto il tempo di memorizzare tre dei luoghi che vedremo di più nel corso del documentario che veniamo rispediti indietro all’estate del 1991: il loro primo album Leisure uscirà tra pochi giorni e i ragazzi si preparano all’esibizione al Reading facendo baldoria fino a tardi negli spazi angusti del pullman, nonostante gli ordini del tour manager Ifan (già esaurito dopo appena tre minuti di documentario) di andare a dormire. I Blur sono ancora un nome nuovo e la loro scalata negli ambienti indie è appena cominciata: nel backstage del festival vediamo facce giovani e sbarbate che si guardano attorno con curiosità e nervosismo; c’è Damon Albarn che spia con gli occhi sgranati il pubblico che li attende, prima di salire con aria incerta sul palco. La versione in studio di There’s No Other Way fa da colonna sonora alle tremolanti inquadrature della band e della folla, nonché della fauna locale del festival. Infatti, un aspetto da non sottovalutare di Starshaped è quello di essere anche un interessante documento della moda e delle sottoculture dei primi anni 90: in una sequenza che ormai dopo 30 anni potremmo definire storica, vediamo ragazzi indie, shoegazers, fan del grunge, hippie, metallari, punk, tutti accampati gli uni accanto agli altri.
Per introdurre il capitolo successivo tornano i Blur del futuro: i quattro sono seduti in una triste e impersonale caffetteria, fumano in silenzio e hanno l’aria sconvolta di chi è sopravvissuto a fatiche indicibili; la differenza con i volti innocenti e spensierati che abbiamo visto fino a poco fa è evidente. “Ciò che ci hanno chiesto è stato com’era essere nei Blur l’anno scorso, nel 1992”, dice Damon. “E come potete vedere, nessuno ha niente da dire al riguardo.” L’immagine che segue probabilmente riassume alla perfezione quanto appena detto, e ci tiene a ricordarci che non c’è niente di glamour nei tour estivi di una band emergente: Albarn vomita sul marciapiede appena fuori da un aeroporto – con quel completo scuro e gli occhiali da sole potrebbe passare per un sosia in hungover di James Dean -, poi riprende fiato e allarga le braccia. Lo show deve andare avanti.
Ma prima, un po’ di contesto. Il 26 Agosto 1991 (esattamente due giorni dopo il concerto al Reading Festival) esce Leisure, album di debutto figlio del proprio tempo e non particolarmente amato dalla band, col senno del poi. All’epoca i Blur erano una band ancora sconosciuta, con un’estetica sciatta e discutibile: l’occhio vuole la sua parte, ma la maggioranza dei brani – fortemente influenzati dalla psichedelia e dal Madchester di fine anni 80 – già sono considerati roba superata; a questo, aggiungiamoci anche un manager incompetente (facciamo nomi e cognomi: Mike Collins, e lo si può vedere in Starshaped col volto oscurato mentre si aggira nel backstage del Reading) che scappa con tutti i guadagni dell’album. Manco il tempo di cominciare e i Blur hanno già un debito di 60.000 sterline: assoldano un nuovo manager, che per recuperare il denaro scomparso organizza un mega tour di 13 estenuanti settimane negli Stati Uniti. Ma ecco incombere un’ombra minacciosa, con Nevermind dei Nirvana che (a detta di Alex James) esce il primo giorno di tour e il mondo che trova una nuova ossessione nella rozzezza e nello squallore del grunge: per farla breve, le date si rivelano un fiasco totale, e i Blur se ne tornano a casa stremati, delusi, ignorati e incazzati.
Tornando al documentario, l’aria è decisamente cambiata: nel 1992 i Blur inaugurano la propria battaglia per restituire dignità alla musica britannica col singolo Popscene, e allo stesso tempo cominciano a lavorare su quel genere che poco tempo dopo vedrà ufficialmente la luce come britpop; sul piano estetico, si passa dagli abiti baggy da ragazzini bisognosi di una doccia ad un look più adulto e più inglese, con completi, Fred Perry e Dr Martens – ispirandosi chiaramente alle sottoculture mod e skinhead. L’atmosfera dominante è di determinazione, cinismo e arroganza.
I concerti diventano sempre più dinamici e folli, con le prime esecuzioni dei brani che poi andranno a comporre Modern Life Is Rubbish: Damon salta, si arrampica, rotola, si prende a schiaffi, fa le smorfie e si dimena mente gli altri cominciano ad occupare il palco con maggiore sicurezza. L’energia raggiunge l’apice al Glastonbury Festival, quando durante Day Upon Day Albarn si lancia contro un amplificatore gigante che gli cade addosso, quasi rompendogli un piede. Nel mentre, la popolarità cresce e l’alcol scorre a fiumi: due ragazze estatiche ammettono di seguirli ovunque, un ubriachissimo Graham Coxon esprime opinioni discutibili su PJ Harvey, Damon Albarn viene colto in flagrante mentre chiede ad Ifan se può farsi qualche altra birra prima di salire sul palco e la band si intrattiene con una stonatissima versione a cappella di When Will We Be Married mentre viaggia sul tour bus. Ma oltre la sregolatezza imperante, i Blur si dedicano anche ad attività più tranquille, nonché all’esplorazione degli aspetti più popolari della cultura britannica – qualcosa che costituirà un tema centrale nella loro produzione successiva: nuotate al lago, pause in autogrill, mini market e sale giochi (se non riuscite a togliervi dalla testa la musichetta di Postman Pat avete tutta la mia comprensione), gite a Stonehenge e pranzi in squallide tavole calde che servono economici meal deal per famiglie.
I primi accordi di For Tomorrow aprono la terza e ultima parte di Starshaped: è il Luglio del 1993, siamo all’Heineken Festival e i Blur eseguono davanti ad un pubblico in totale adorazione la prima traccia di Modern Life Is Rubbish, il loro secondo disco uscito a Maggio dello stesso anno. La canzone è un inno alla resistenza contro il grigiore della vita e una celebrazione della loro amata Londra: la guerra contro il grunge e l’americanizzazione della Gran Bretagna e dell’Europa è ufficialmente cominciata.
Alcune delle domande che, possibilmente, solleva il documentario sono: in mezzo a tutto questo caos, queste birre e quest’avversione per i Nirvana, i Blur dove sono diretti? Questo ambizioso rinascimento della musica britannica funzionerà? Noi spettatori del 2023 sappiamo già com’è andata, ma a quel tempo era una questione piena di rischi e incognite. Forse, la risposta a queste preoccupazioni sta proprio nel finale di Starshaped: i Blur camminano tenendosi adorabilmente per mano sulla stessa strada su cui correvano con tanto entusiasmo all’inizio, compatti come fratelli che si guardano le spalle l’un l’altro e diretti verso la nuova missione che li attende; in sottofondo, i rumori del traffico e la voce dello shipping forecast – le previsioni meteo per i naviganti. Dopo 58 minuti di pura follia, non ci si può non commuovere davanti alla bellezza di questa semplicissima immagine: già nel 1993, era abbastanza per capire che quei quattro lì erano destinati a grandi cose.