Il rosa Baker-Miller è una particolare tonalità di rosa dal forte potere calmante: studi scientifici dimostrano che la visione di questo colore aiuta a rallentare il battito cardiaco, a respirare con maggiore regolarità e a rilasciare la tensione muscolare. L’altro suo nome, “drunk tank pink” (grossolanamente traducibile in italiano come “rosa da cella”) deriva dal fatto che fu – ed è tuttora – impiegato in alcuni centri di detenzione dopo che diversi esperimenti provarono che l’esposizione prolungata a questo colore rendeva anche il prigioniero più forzuto e rissoso debole come uno spaghetto cotto. Abbastanza casualmente e senza conoscerne le proprietà, il rosa Baker-Miller è il colore scelto da Charlie Steen per dipingere le pareti della sua nuova camera, una volta tornato da un lunghissimo tour che aveva impegnato per quasi tre anni lui e i suoi compagni di band per la promozione del loro primo disco.
Chiunque conosca un minimo la loro storia, saprà di sicuro che gli Shame suonano insieme da quando erano ragazzini, e che Songs Of Praise (uscito nel 2018) era il prodotto delle loro esperienze e scoperte in un’adolescenza trascorsa tra pub, palchi e le strade della fervida Londra sud. Quel primo album intriso di acume e di rabbia che aveva riscosso così tanto successo aveva consacrato gli Shame a “nuova band più eccitante del Regno Unito” e li aveva incaricati di un compito che, vuoi per l’entusiasmo e la freschezza, erano ben determinati a portare a termine. Quasi duecento concerti dopo – in quattro diversi continenti -, il gruppo si ritrovò a fare i conti con una cosa della quale ti dimentichi quando sei in tour: stare fermi. A quel punto, ricominciare ad apprezzare la compagnia di sé stessi e la normale routine era diventata una missione. E qui entra in gioco il rosa: una volta tornato a Londra, Steen si trasferì in una vecchia lavanderia industriale che trasformò in camera da letto; tutto quello che voleva erano delle pareti rosa per ricreare il confortevole ambiente del ventre materno, e proprio per questo motivo Charlie ribattezzò la nuova sistemazione “the womb” (“utero”). A restauro completato, vi si ritirò, determinato a scendere a patti non solo con l’ordinarietà, ma anche con tutta una serie di pensieri che il tempo passato in giro per il mondo non gli aveva permesso di elaborare (“Siamo stati in tour per così tanto tempo che ci siamo sentiti come se avessimo perso qualcosa, […] eravamo come dei turisti nella nostra adolescenza, in qualche modo”). All’interno di quel ventre rosa, Steen ricominciò ad apprezzare la lentezza della vita del comune mortale, ma soprattutto a riabituarsi alla solitudine, coadiuvato dagli effetti rilassanti del colore delle pareti. Ovviamente il processo non era privo di difficoltà, ed è in questi casi che la cosa migliore da fare è scriverne: appena chiuso il capitolo Songs Of Praise, Charlie si mise a buttar giù i testi del disco seguente che, in onore del luogo in cui tutto iniziò, fu chiamato Drunk Tank Pink.
L’album è composto da 11 tracce che si susseguono in un rapido dinamismo a suo modo rassicurante, perché ci fa capire che, nonostante le varie peripezie e i tre anni trascorsi, gli Shame hanno sempre mantenuto intatta l’implacabile energia che li ha contraddistinti sin dall’inizio. Il primo brano del nuovo disco è Alphabet, che con la sua frenesia e le parole urlate nelle orecchie dà un eccellente inizio a questo secondo capitolo, un tipico brano punk a marchio Shame che ci fa sentire subito a nostro agio e curiosi di cosa ci aspetta. Seguono Nigel Hitter, vivace e insolita per il suo singolare ritmo funky, e la camaleontica Born in Luton, con i suoi affascinanti cambi di tempo. Guardando i testi, non possiamo non notare un cambiamento di rotta: l’acutezza e la sottile malizia di Songs Of Praise lasciano spazio ad una nuova maturità introspettiva, e se nel disco precedente il pronome prevalente era “you”, stavolta c’è la predominanza dell’”io”. È evidente come Steen abbia usato la scrittura come mezzo di autoanalisi, di comprensione di sé, di esplorazione dei propri pensieri; si parla di isolamento, di stasi, di solitudine, di estraniamento:
I’ve been waiting outside for all of my life
And now I’ve got to the door, there’s no one inside
(Ho aspettato fuori per tutta la mia vita / E ora che sono davanti alla porta, non c’è nessuno dentro)
Per quanto sia complesso questo percorso di introversione e per quanto alcuni pensieri possano fare paura, si può sempre contare sul conforto e la protezione dei nostri posti preferiti; nel caso di Charlie, è la sua stanza rosa, che fa un’apparizione speciale in March Day:
In my room, in my womb
Is the only place I find peace
(Nella mia stanza, nel mio grembo materno / E’ l’unico posto in cui trovo pace)
Sulla scia dell’esuberanza funky di Nigel Hitter c’è Water In The Well, un brano dall’andatura bizzarra e smaniosa, con i cori che si urlano addosso confondendo le parole, mentre Steen cerca di farsi strada per esprimere il suo spaesamento:
We all got lost somehow
I tried to find myself but I
Lost the map and now I’m all burnt out
(Ci siamo persi tutti in qualche modo / Ho cercato di ritrovare me stesso ma / Ho perso la mappa e ora sono tutto bruciato)
La metà dell’album comincia con il riff iniziale di Snow Day, su una base di batteria sincopata e velocissima, opera rispettivamente di Sean Coyle-Smith (anche lui reduce da un periodo di analisi, della propria tecnica chitarristica però, dal quale è uscito con suoni rinnovati e più adulti) e Charlie Forbes, strumenti che in questo disco vengono particolarmente esaltati dalla produzione impeccabile di James Ford (che vanta nel proprio curriculum nomi come Arctic Monkeys, Gorillaz, Declan McKenna, The Last Shadow Puppets, Florence + The Machine… uno alle prime armi, insomma). Stavolta Charlie Steen recita un monologo parlato, con voce profonda, elevandosi al di sopra della musica, e quasi possiamo immaginarlo proprio sulla collina dalla quale ci sta parlando, circondato dalla neve e dal vento, a dispensare perle di saggezza:
They say don’t live in the past
And I don’t
I live deep within myself
Just like everyone else
(Dicono di non vivere nel passato / E io non lo faccio / Io vivo nel profondo di me stesso / Come chiunque altro)
E ora una piccola perla, personalmente la mia preferita di tutto l’album. Human, For A Minute gli Shame la suonano dal vivo dal 2018, tempi in cui la introducevano come “untitled” e, sin dallo svelamento della tracklist di Drunk Tank Pink, ho aspettato con impazienza il momento di sentirla per la prima volta nella sua versione registrata in studio. Quest’ultima è totalmente diversa da quella che la band ci ha fatto ascoltare finora e, ad essere sincera, me ne sono innamorata sin dal primo istante: da brano energico e ritmato, con chitarre rievocative di un rock anni 80 alla U2 e con Steen e Josh Finerty che urlano nei rispettivi microfoni, si è trasformato in una raffinata ballata lenta, soffusa e vibrante, genere finora assente nella produzione degli Shame, con Charlie che quasi ci sussurra nelle orecchie, implorando di potersi risentire umano anche solo per un minuto. Ma a squarciare l’atmosfera sognante e ad inaugurare il secondo atto punk del disco ci pensa l’inarrestabile e velocissima Great Dog, seguita dalle altrettanto incontenibili 6/1 e Harsh Degrees.
L’abbiamo capito, Drunk Tank Pink non è stato un disco facile: nato dalla voglia di ritrovare punti di riferimento e di tornare con i piedi per terra, scritto e registrato con fiducia ed eccitazione durante mesi relativamente normali; una volta pronto per la pubblicazione, smorzato bruscamente da una pandemia e infine rivelato al pubblico che lo attendeva con ansia all’inizio di un anno ancora più carico di incertezze del precedente. Ma ciò che Drunk Tank Pink vuole trasmettere è che la creatività riceve la spinta migliore in momenti come questi, e che non dobbiamo lasciare che il peso dello smarrimento e dell’alienazione ci schiaccino. Piuttosto, dobbiamo adattarci a qualunque situazione ci si prospetti davanti e imparare ad apprezzare la compagnia di noi stessi, a capirci e ad ascoltarci. A chiusura dell’album c’è Station Wagon, con Steen che ci accompagna con voce roca e monotona in un febbrile flusso di coscienza:
I need a new solution
I need a new resolution
And it’s not even the end of the year
(Ho bisogno di una nuova soluzione / Ho bisogno di un nuovo proposito / E non è neanche la fine dell’anno)
Abbiamo tutti bisogno di darci una mossa, di uscire dalla nebbia, di trovare soluzioni nuove a problemi che mai avremmo pensato di dover affrontare; solo imparando a diventare flessibili e rieducandoci all’ascolto e alla pazienza riusciremo a trovare un equilibrio, e magari anche arrivare ad epiloghi inaspettatamente saggi e giusti per noi, come la (poetica) conclusione alla quale giungono gli Shame:
Happiness is only a habit
And if that’s true
Then I am habitually dependent on
Something I cannot control
(La felicità è solo un’abitudine / E se questo è vero / Allora sono abitualmente dipendente da / Qualcosa che non posso controllare)